[ Sono qui, a El Castillo, placido e lindo paese lungo il rio San Juan, nel sud del Nicaragua, sulla bellissima terrazza in legno dell’hospedaje di Doña Aurora, che sembra di stare sul Mississipi, mentre scrivo le parole che seguono per raccontare il mio passaggio alla frontiera di qualche giorno fa. Quella è stata una giornata intensa, non solo per le ore di viaggio e il poco sonno alle spalle, ma soprattutto per essere stata testimone involontaria di storie di frontiera e di clandestinità. Sono qui che mi gusto la vista hermosa sul Rio San Juan e sul muelle del paese, dove la bandiera del FSLN ti da subito la bienvenida al tuo arrivo – tanto per ricordarti come stanno le cose – quando arrivano cinque giovani ragazzi, sporchi lerci di terra, dagli stivali di gomma fino alla vita, volti sformati dalla fatica e alcuni con barba incolta da giorni, con un paio di pale, piccoli zaini e poco carico dietro. Ce li ho qui, vicino a me, seduti sparsi in attesa di usare la doccia aperta della terrazza di Doña Aurora. Alcuni di loro stanno legando un paio di amache per riposare, altri si sistemano sul suolo: devono aspettare ancora due ore per la prossima barca per San Carlos, da lì, domani mattina, prenderanno il bus per Managua e poi ancora più a nord. 10 ore in bus, o meglio 10 ore in “chicken bus”… Gli offro acqua e un paio di aspirine e presto ad uno di loro il caricatore del cellulare. Sono nicaraguensi di Matagalpa, nord Nicaragua, e vengono dalle miniere del Costa Rica, dove lavorano clandestinamente per sacar polvo de oro e non sono nemmeno i primi con cui entro in contatto e scambio qualche parola. Hanno attraversato sempre clandestinamente la frontiera, attraverso i campi, prima, e poi la selva. Sento dire a Don Paco, il simpatico e anziano papà di Doña Aurora, che stamattina sono partite due pangas cariche di minatori para los naranjales. Sono arrivata tardi a capirlo, ma ora lo so: El Castillo è un paese di frontiera, di passaggio e partenza e di prima accoglienza, per questi lavoratori clandestini pendolari. Ma andiamo per ordine. ]

Seconda tappa verso la frontiera. Siamo molto in ritardo sulla tabella di marcia, se mai ci fosse stata una tabella di marcia, ed arriviamo a Los Chiles (Costa Rica) da San José, ben oltre le tre ore e mezza presupposte di tragitto. Ora, la mia idea era quella di affrontare la frontiera “alla vecchia maniera”, ovvero prendendo una lancha dal molo de Los Chiles e risalendo lungo il Rio Frio fino a San Carlos de Nicaragua (ci vuole che date un’occhiata alla mappa, per capire meglio questa zona di confine). Che poi è come si é sempre fatto fino a pochi anni fa, prima che aprissero il nuovo passaggio di frontiera ad est, tra Costa Rica e Nicaragua. Sarebbe stato un tragitto più lungo e magari scomodo, ma più affascinante e di certo più suggestivo dal punto di vista panoramico, rispetto al tragitto via terra. Quando comprai il biglietto del bus fino a Los Chiles, l’omone della taquilla mi assicurò che avrei trovato sicuramente lanchas in partenza per il Nicaragua. Successivamente, chiedendo informazioni qua e là, mi hanno sconsigliato di scendere, perdendo tempo a Los Chiles, perché il servizio acquatico ufficiale della lancha ormai non era più funzionante, a causa della mancanza di richiesta. La colpa è dei giapponesi. Sì, perché il governo giapponese almeno tre anni fa regalò un ponte sul Rio San Juan – Puente Santa Fe – al governo nicaraguense (vai a capire tu cosa ci sia dietro a questo dono…), aprendo così un nuovo accesso via terra tra il territorio costaricense e quello nicaraguense, oltre a quello di Peñas Blancas già esistente più a ovest. In questi anni sono stati organizzati e strutturati i nuovi puestos fronterizos de Las Tablillas (lato costaricense) e de Los Panchos (lato nicaraguense), portando ad accrescere via via i flussi migratori da questa parte. Ma fino ad allora, l’unico modo per raggiungere la tierra nica era via fiume, con le tipiche imbarcazioni lunghe e strette che si usano qui e che chiamano pangas. Si andava all’ufficio di Migraciòn nel muelle de Los Chiles, si pagava la tassa di uscita dal territorio tico, timbro a seguito e ci si imbarcava poi per quattro ore o più, navigando sù, lungo il rio fino ad arrivare a San Carlos de Nicaragua. Qui, altro passaggio obbligato all’ufficio di Migraciòn del paese per la tassa di entrata in Nicaragua, il timbro sul passaporto e la tarjeta de turista de 90 dias. Ecco, questo volevo fare, ma ho dovuto abbandonare ben presto e a mio malgrado la mia idea. Mi dicono che un’ ultima possibilità di risalire il fiume da Los Chiles de Costa Rica fino a San Carlos de Nicaragua ci sarebbe, ma clandestinamente e di certo non posso permettermi di non avere sul passaporto il timbro di uscita dal Costa Rica. Qui non si scherza.
Comunque, posso dire che anche l’itinerario via terra ha avuto il suo fascino.
La terminal de buses di Los Chiles non è una stazione degli autobus, màs bien è una sorta di estensione di una semplice fermata. Qui, percepisco i primi movimenti, intuisco dinamiche strane, vedo scendere di corsa alcune persone dal bus – uomini e donne indistintamente – e sento sussurrare parole come “acuerdense, mi bolso es el rosado y despues tengo el chiquitico negro. Ya no vemos pa’ otro lado”. Si dirigono verso taxi abusivi, già lì in attesa, che le avvicineranno alla frontiera. Poi “a jugarsela”, attraverso cammini alternativi tra i campi di arance, i famosi “naranjales”. Doña Julia, la signora che nella foto indossa la t-shirt con la scritta El Servidor, me la ritroverò poi nel minivan in partenza dal lato nicaraguense. Non ha problemi a parlare, me lo dice chiaramente che “no tiene papeles”, è nica, ma lavora in Costa Rica e rientra a casa ogni settimana, passando per “los naranjales”, un percorso di un’ora o poco più a piedi, per evitare il controllo. “Ma controllano? Io ho visto pochissimi poliziotti di frontiera, stare lì di guardia.” “Più o meno. Chiudono un occhio, spesso anche due. L’importante è essere rapidi e discreti. No hay mas que hacer.”
Il puesto fronterizo costarricense si trova qualche chilometro più a nord de Los Chiles, ovvero a Las Tablillas. Lo stesso bus che arriva a Los Chiles prosegue fino a Las Tablillas, io neanche scendo. Osservo, osservo tanto. E poi chiedo all’autista il prezzo da pagare per arrivare fino a Las Tablillas, visto che avevo il biglietto solo per Los Chiles: devo avergli suscitato tenerezza o pena o magari rispetto, chi lo sa, sta di fatto che non mi fa pagare nulla. Arriviamo a Las Tablillas. Scendo, vedo altri movimenti strani. Con il policia de frontera allo sportello dell’ufficio costaricense nessun problema: esco dal Costa Rica, se entrassi e per di più dal Nicaragua, le cose sarebbero decisamente diverse. Faccio la fila per pagare la tassa di uscita, poi altra fila per il timbro sul passaporto e via. Ci tiene però ad avvisarmi che mi avrebbero fatto una entrevista, dall’altra parte, e che avrei dovuto spiegare il perché mi fermo in Nicaragua passando dal Costa Rica. “Està bien, posso rispondere, grazie per avvisarmi.” Esco dall’ufficio e avanzo verso la strada.
Ecco qui, ora arriva il momento cruciale.
Arriva il momento in cui ti trovi a percorrere, a piedi, quel mezzo chilometro scarso che separa una stazione di frontiera dall’altra.
Il momento in cui cammini sulla tierra de nadie. Lascio dietro di me la bandiera enorme e svolazzante del Costa Rica, e davanti a me non trovo nessuna bandiera, quasi nulla che identifichi l’arrivo prossimo a suolo nicaraguense. Sulla mia sinistra invece, vedo da lontano, ma distintamente, delle figure che camminano nella mia stessa direzione. Devono essere gli ultimi uomini che sono scesi dal bus, quando siamo arrivati a Las Tablillas, e che in maniera fugace ho visto entrare in un sentiero sulla sinistra, vicino al puesto fronterizo costarricense. Sia io sia loro camminiamo verso un altro paese, facciamo gli stessi passi. La differenza sta ne los papeles.
La dicha entrevista all’ufficio Migraciòn del lato nicaraguense non è stata semplice. Almeno, non come l’anno scorso a Peñas Blancas. Allo sportello c’è un giovane e bel ragazzo sui 30 anni con lineamenti tipicamente nicas, con gli occhi un po’ allungati, gli zigomi alti e ben pronunciati e il colore della pelle ambrato. Non si spiega perché mai per venire in Nicaragua passassi per il Costa Rica. “Usted verà, dall’Italia il costo del volo per il Nicaragua è caro e conviene volare a San José per poi passare la frontiera via terra.” Allora vuole vedere il biglietto del mio volo di rientro, la mia prenotazione a San Carlos, dove avrei dormito i giorni successivi e poi il volo di rientro da Managua a San José e le mie mail di comunicazione con il tour operator di Léon.
Quando sfoglia il passaporto con i timbri, chiama un suo collega, sorridono tra loro, e mi chiede dell’Argentina. “Tengo familia en Argentina”. C’è stato un nano secondo in cui ho avuto un pensiero negativo: troppo tempo e troppe domande, questo qui non mi fa passare. Ma poi è andato via, il pensiero negativo. È finita a tarallucci e vino, con il chico fronterizo che mi chiede di Roma e Firenze e dove io abbia lasciato il mio fidanzato. “De momento no tengo novio Señor, ni hijos. Tengo la libertad, eso si”: avrà pensato che ho qualcosa che non va, que soy un bicho raro. E finalmente me ne vado all’ufficio della dogana, per il controllo bagagli, grondando sudore e tirando un respiro di sollievo, ma con la mia bella tarjetita de turismo. All’uscita, ancora qualche altro passo ma ora in tierra nica, e dietro una sbarra mi attende un minivan che partirà solo quando sarà pieno e che per 2 dollari, ovvero 60 cordobas, mi porterà alla stazione dei bus di San Carlos de Nicaragua, passando per il famoso ponte giapponese di Santa Fe.
Arrivo a San Carlos de Nicaragua quasi alle tre del pomeriggio: stanchissima, provata ma orgogliosa e con gli occhi pieni. Ripensando a tutto ciò che ho visto e vissuto.
Quando penso al concetto di confini e di frontiera mi viene sempre in mente un’immagine ben precisa, al supermercato: quando stai alla cassa e quello prima di te mette il divisorio tra la sua e la tua spesa. L’ho sempre trovato inutile. Siamo tutti donne ed uomini di frontiera: le frontiere vanno superate, abbattute ed è bene ed importante sentirsi sempre anche dall’altra parte.

[I ragazzi della miniera sono appena partiti. Li ho dovuti svegliare o perdevano la panga delle 4 del pomeriggio. Hanno raccolto velocemente le loro cose, le pale e le amache. Mi hanno salutato con gli occhi rossi di sonno. Que les vaya bien, gli ho augurato con tutto il cuore.]

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