Arrivo alla stazione di Palmar Norte alle 9.20 del mattino, dopo tre ore di viaggio. Sono nel profondo sud del Costa Rica. Più che stazione dei bus si tratta di una piccola e semplice sala d’attesa nella strada principale del paese, con biglietteria, una decina di sedie alle pareti e un distributore automatico di golosinas. Madri con bimbi, ragazzi assonnati, contadini con buste di yuca e aguacates. Chi entra, chi esce, chi attende. Chiedo alla donnina della biglietteria l’orario del bus per Puerto Jimenez: ore 10.30. Mi siedo e aspetto tranquilla. A quanto pare di turisti qui, non ne passano tanti, quindi molti sono incuriositi e mi salutano. Esco sulla strada ed entro in un negozietto per comprare l’acqua e parlando con il ragazzo che mi serve, viene fuori che il bus per Puerto Jimenez parte alle 11.30 e non alle 10.30 e per di più da un’altra zona del paese, ovvero appena fuori.
Dunque, in Costa Rica bisogna chiedere le informazioni almeno a quattro o cinque persone diverse – che poi diventano dieci perché ogni volta interviene qualcun’ altro – e posso assicurarvi che ognuna di queste persone vi darà indicazioni differenti e contradditorie. Quindi shakerate bene il tutto e fatevi poi una vostra idea, sperando che il vostro risultato sia quello giusto. A volte funziona, a volte no.
Alla luce delle nuove informazioni, lascio la sala di attesa e mi metto in cammino verso il mio nuovo bus delle 11.30, ma non resisto alla tentazione e chiedo di nuovo indicazioni lungo la strada. Non l’avessi mai fatto: troppa scrupolosità, in questa parte del mondo, non premia e naturalmente ogni volta mi viene indicata una strada diversa e una fermata di bus differente. Niente da fare, chi mi dice una cosa, chi un’altra. Un quilombo! Estenuata, mi fermo al café Ticolombia: ho ancora tempo per capire dove diamine devo andare. Con lo zainone sulle spalle di certo non passo inosservata e subito, un uomo, seduto al bancone esterno della cafeteria, mi chiede “Usted de donde viene?“, “y usted está de viaje?“, “y le gusta Costa Rica?“, “y porque anda sola?” e così via. Alla domanda “de donde viene” ormai ho imparato a giocarmi la carta di Assisi. Spesso la conoscono per via di San Francesco o del Papa. Roberto, sui cinquant’anni, mulatto, fa il tassista e non conosce San Francesco, allora gli racconto un po’ del santo umbro e della bellissima Basilica e dei suoi affreschi. Giuro, nel giro di pochi minuti raduno intorno a me tutti i venditori ambulanti dell’angolo, che si mettono ad ascoltarmi ed io, giù, a raccontare del poverello, con un batido di mango in mano. Ad un certo punto, mi ricordo della mia fermata d’autobus e per l’ennesima volta chiedo da dove parte il bus delle 11.30 che viene da San José e va a Puerto Jimenez. Fatto di straordinaria eccezionalità, sono tutti d’accordo e mi dicono che devo uscire appena dal paese e raggiungere la strada grande che passa dietro ad un supermercato. Addirittura Luis si offre di accompagnarmi fino alla fermata. Luis è un uomo di una certa età, nero di pelle e con gli occhi di un blu profondo come quelli di Miles. Sbiascica i piedi, non che sia claudicante, ma diciamo che ha un passo tutto suo. Porta una meravigliosa camicia kitsch in acrilico, con palme color nero e panna, di cui va fiero perché l’ha pagata solo 1400 colones. Luis vende i sorteos, ovvero i biglietti della lotteria e li tiene in una sorta di collana che pende dal suo collo. Anche in Spagna esistono questi particolari venditori e i sorteos di strada si trovano ovunque. Allora, Luis si offre di accompagnarmi alla fermata, certo, ma deve comunque lavorare ed ottimizzare i tempi, quindi va a finire che io lo seguo mentre lui entra ed esce dai vari bar e ristoranti, passando tra i tavoli per vendere i suoi sorteos. Ed io bella bella, dietro di lui, manco fossi un’assistente di vendita. E non dimenticate il dettaglio del passo sbiascicante. Insomma, scena surreale e alquanto cartolinesca, anche perché non si capisce bene chi accompagna chi. Al quarto bar lo attendo fuori. Finalmente usciamo dal paese e raggiungiamo una strada trafficata che scopro essere non altro che la Panamericana, la mitica ruta che da Ushuaia, in Argentina, sale su dritta fino a Tijuana, in Messico (e continua fino all’Alaska). La concretizzazione, su strada, del sogno di Simon Bolivar. Luis mi indica un punto al di là della carretera, salutandomi con un “Mi-hi-ja ahì está la parada del bus para Puerto Jimenez. Que Dios le bendiga!“. Eccola lì, la mia fermata del bus: una piccola pietra, forse a mo’ di seduta, affossata sotto una altrettanto piccola palma spelacchiata, sul ciglio della strada. Colleziono fermate di autobus, ma una così non mi era mai capitata… Ovviamente sole a palla. Sono quasi le undici e mi fermo in piedi a esperar. Aspetto e spero. Alle undici e mezza non passa alcun bus. Alle dodici, dalla mia postazione privilegiata con vista sulla Panamericana, ho osservato passare già svariati bus, di tutti i colori e per tutte le destinazioni, tranne il mio. In compenso, l’intero paese di Palmar Norte sa che la italiana sta aspettando il bus per Puerto Jimenez sul ciglio della carretera principal e chiunque passi di lì ha una parola di conforto per me. Alcuni passano anche di proposito, ne sono certa: “Que le vaya bien“, “Que Dios le acompañe“, “Usted no se preocupe que el bus pasa, quizás más tarde“. Quizás más tarde, questo è il punto. E chiunque passi di lì, ogni volta mi consiglia di spostarmi qualche metro più in là, ora a destra della palma, ora a sinistra della palma, sostenendo che la vera fermata non fosse proprio sotto la dichosa palma o sostenendo, più semplicemente, che così l’autista mi avrebbe visto meglio. Verso l’una mi spalmo in faccia il solare 50+ antimacchie – ancora nulla del mio bus – e mi assicuro il pranzo comprando una banana da un omino, che passa in bicicletta, con il casco di banane ciondolante dal manubrio. In bicicletta sulla Panamericana, praticamente in tangenziale all’ora di punta. José: bianco di età indefinibile, col volto bruciato dal sole, jeans pieni di terra, camicia a quadri aperta sul petto, stivali verde scuro antipioggia e in testa un cappello da telenovela Pasion de Gavilanes. Si chiacchiera un po’ e alla fine se despide con “Usted no se preocupe, verà que ahorita pasa el bus“. Dicasi “ahorita“, tra poco.
Quanta vita sulla Panamericana, non potete immaginare.
Poco prima delle due passa Ismael, con un mezzo arrabattato di altissimo ingegno, metà bici e metà carretto. Sulla parte posteriore ci sono quattro grandi miscelatori con bocchetta tipo quella del vino Tavernello, in formato maxi, e un cassettone con empanadas e tortillas varie. Ismael è vestito totalmente di bianco e in testa indossa un cappello, anche questo bianco, con visiera e paraorecchie. Soliti stivali antipioggia, grigi, col sole sempre a palla. Questa volta lo dico io “Que Dios le bendiga“, perché compro e mi bevo un bel jugo de caña, evitando la disidratazione. Altra bella chiacchierata, “Y usted de donde viene?” “Italia, Foligno” “Donde es eso?” “Centro Italia, entre Florencia y Roma. Le suena el pueblo de San Francisco, Asis“? Sarà per il sole che mi picchia in testa forte, ma ora mi sento proprio investita dalla carica di missionario: e daje ancora con la storia di San Francesco. A Ismael le caigo bien, gli sto simpatica e mi regala una tortillita di mais con carne enchilada, preparata dalla figlia, e poi mi omaggia di una degustazione degli altri jugos, fatti da lui, deliziosi. Sto per provare quello di piña e arroz, quando finalmente vedo arrivare un ammasso di ferraglia color verde, con su scritto PUERTO JIMENEZ. Bendido sea Dios. Sono le due e mezza del pomeriggio o poco più.
Tre ore in attesa del bus.
Scatto come una matta e sbraccio anche con tutte le gambe, che avrei voluto tanto fossero quattro. Ringrazio e saluto velocemente Ismael. Il bus si ferma e l’autista Rolando, leggo il nome stampato sulla camicetta della compagnia Transporte Blancos, tutto beato e pacioso, scende e mi apre il portabagagli. Gli chiedo come mai tutto questo ritardo e lui, sempre beato e pacioso, mi risponde con uno spagnolo che suona così: “Ritardo de che? Questo autobus passa per Palmar Norte sempre alle due”. Scoppio a ridere, un po’ per tutta la situazione assurda e un po’ per l’insolazione. Salgo sul bus e vengo subito colpita dal getto freddo dell’aria condizionata, nulla di nuovo, e dalle note di ‘Maledetta Primavera’ cantata in spagnolo, questa sì che mi mancava.
Avrò il sorriso stampato in faccia per tutto il viaggio.

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